Ricerche frequenti
Curve, staccate, chicane, rettilinei... È su questi elementi che ogni pista fonda il suo fascino e regala emozioni a piloti e spettatori. Qualcuno, però, questi elementi li deve pensare, disegnare e... tradurre in solido asfalto. Come, ce lo spiega Jarno Zaffelli, l’ingegnere italiano che, con il suo Studio Dromo, contende a Hermann Tilke il ruolo di “architetto” delle piste più note del mondo. Tra i suoi lavori, l’Autodromo di Termas de Rio Hondo, in Argentina, e i rimodernamenti di piste storiche come Mugello, Imola, Sepang e Monza. Oltre al meraviglioso GoPro Motorplex di Mooresville, copia in terra USA del mitico kartdromo di Parma.
Può nascere in diverse maniere: la prima è quando si ha un terreno proprio e si decide di disegnare personalmente la pista, facendo i propri errori, le modifiche... Molte piste e kartodromi sono nati così.
Altra possibilità è avere un terreno e decidere di rivolgersi a un professionista per disegnare la pista, il ché, chiaramente, presuppone un approccio diverso, più professionale.
Terza ipotesi è avere già qualcosa di esistente: un pezzo di strada, un vecchio kartodromo da rimodernare... In questo caso, allora, si compiono delle scelte mirate che servono a raggiungere l’obiettivo.
I regolamenti del kart non specificano nulla, a parte le pendenze laterali e longitudinali, che hanno un massimo e un minimo. Da un punto di vista di raggio di curvatura non c’è alcuna indicazione; si ha, però, un limite specifico, che è dato dalle macchine di stesa dell’asfalto. Al di sotto, mi pare, dei 6 metri, la macchina asfaltatrice non riesce a pavimentarla bene perché non riesce a curvare. In questi casi mettere giù l’asfalto diventa molto più difficile; e il continuo passaggio dei kart finisce per sollevare il manto stradale e rovinarlo. Non a caso i “tornantini” sono i classici punti che, nei kartodromi, vedi riasfaltati o ripavimentati in cemento: l’asfalto non sta giù perché le macchine che lo pavimentano non riescono a mantenere le caratteristiche superficiali corrette.
Innanzitutto, più che parlare di curva lenta o curva veloce, si dovrebbe parlare di curva a raggio costante (un perfetto arco di cerchio), o curva a raggio variabile. Questa sarà “a chiudere” se si entra forte ma, poi, c’è il tornantino e si deve frenare sterzando, oppure “ad aprire” se si entra con una “staccatona” ma si deve ridare prestissimo gas. Il problema è che, nella realtà, la curva non è un’entità a sé, ma deve essere lo strumento per plasmare la linea di traiettoria ideale. Il primo errore fondamentale nel fare una pista è disegnare una curva, poi un rettilineo, poi una curva... Perché un autodromo o un kartodromo si disegnano con la traiettoria, non con le curve! La curva è ciò che ti permette di far fare al pilota “quella” traiettoria. Mi spiego: la stessa curva che a 6 metri di larghezza è lenta, a 12 metri diventa un curvone veloce, perché cambia del tutto la racing line: è la traiettoria a essere fondamentale, non la forma della curva.
Il più delle volte dipende dal sito in cui si trova la pista: se hai un’area rettangolare, lunga, per sfruttarla al meglio devi cercare di avere, concettualmente, quattro rettilinei lunghi, e non uno zig zag utilizzando la parte corta. In un caso del genere c’è poco da fare: tu sai che hai una sezione molto veloce, quella perimetrale, con la curva di ritorno, dei grandi rettilinei e tre tornanti. L’alternativa... è avere 50 tornanti.
Ma, alla fine, è tutta questione del carattere che cerchi di dare alla tua pista: si possono scegliere delle curve, e ce ne sono davvero un’infinità, che assecondano un carattere piuttosto che un altro, ma l’importante è che questo carattere ci sia. Se la pista non ha carattere, non va bene e trasmetterà mai nulla ai piloti.
Deve metterli in pericolo. È quello che sta fuori che dev’essere sicuro, non la pista. Oggi, invece, se c’è una curva pericolosa... ci si fa una chicane prima. E così la si distrugge. Eppure i moderni sistemi di calcolo sono in grado di capire dove un kart può o non può andare a finire; e, quindi, si può gestire lo spazio realizzando una pista che sia il più “challenging” possibile, ma sicura. Prendiamo l’esempio di Zandvoort: una pista degli Anni ‘50, costruita in mezzo alle dune, con curve cieche e pendenze mostruose. I piloti, lì, si divertono, perché capiscono le loro difficoltà e vanno sempre oltre. Devono fidarsi di loro stessi, della loro performance. E se escono, hanno vie di fuga pendenti fino al 30%. È la pista, in sé, che mette paura... Non il pericolo vero che il pilota può correre.